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    Bollettino di coordinamento dei Comunisti Anarchici e Libertari in CGIL n. 7 gennaio ’12

Manovra continua

di Carmine Valente *

Suonati come il pugile alle corde sotto una gragnola di colpi, così in alcuni momenti appaiono i lavoratori e i pensionati; braccia stanche e idee annebbiate dalla fatica.
Ancora una volta, come oramai avviene da troppi anni, il lavoro, ma soprattutto i soggetti reali che al lavoro danno senso e valore, cioè i lavoratori e chi lavoratore lo è stato, appaiono e scompaiono come soggetti volatili, effimeri ectoplasmi che solo incidentalmente segnano la scena sociale e politica. Ancora una volta non solo il lavoro, ma le persone che di questo lavoro sono i protagonisti appaiono nel crogiolo dell’economia, della politica e della comunicazione come soggetti residuali. Considerazioni queste non nuove, né originali, ma dalle quali è urgente ripartire per riuscire a capire quale ruolo oggi può avere l’azione sindacale e più in generale l’agire collettivo. Le difficoltà del momento appaiono in tutta la loro gravità, e i dati a nostra disposizione sono ampiamente noti.
Dalla polarizzazione della ricchezza che ha fatto registrare un aumento della povertà e un contemporaneo aumento della quota di ricchezza che va a una fascia sempre più ristretta di persone, ciò che in altri termini ha significato una sostanziale e significativa distribuzione della quota di ricchezza a favore dei profitti e a danno della quota che va al monte salari.
Dalle ore di cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga in continua espansione, al crescere della disoccupazione, sia quella registrata nelle cifre dell’istituto di statistica e dell’Inps, sia quella sommersa perché legata a lavori precari che solo in parte accedono alle tutele della disoccupazione.
Dalle manovre sulle pensioni che in un sol “botto” hanno fatto piazza pulita delle pensioni di anzianità ed elevato a 66 anni l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia, spostando per migliaia di lavoratori che si apprestavano ad andare in pensione la loro permanenza al lavoro mediamente per altri tre anni.                  Così com’è noto il peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche, dove emblematica al riguardo è la nuova organizzazione del lavoro nel complesso FIAT avallata da Cisl, Uil e Ugl.
Così com’è nota nel mondo del pubblico la riduzione delle tutele affiancato al blocco per legge della contrattazione, oltre ad alcune specificità di dubbia legittimità costituzionale, allorquando il cittadino lavoratore pubblico è discriminato in alcuni istituti del lavoro rispetto al cittadino lavoratore privato solo perché inserito nell’ambito della pubblica amministrazione. Il richiamo è alla penalizzazione sulla malattia, alle fasce di reperibilità, e, da ultimo, di estrema gravità, alle differenze nell’accesso alla pensione di vecchiaia che sarà già dal 2012 di 66 anni per le lavoratrici pubbliche mentre per le lavoratrici private sale a 62 anni per salire a quota 66 solo nel 2018. Né va dimenticato l’ulteriore elemento di differenziazione legato a quella modesta modifica che consente ai soli lavoratori privati che raggiungono la quota 96 nel 2012 di accedere alla pensione di vecchiaia a 64 anni, confermando l’intento punitivo nei confronti dei lavoratori pubblici. A completare il quadro, seppure a sommi capi, della manovra sulle pensioni va ricordato lo Stop alla rivalutazione delle pensioni per importi superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, vero e proprio provvedimento di cattiveria sociale; la fine del sistema retributivo, in quanto con decorrenza 1° gennaio 2012 tutti i trattamenti pensionistici verranno liquidati con il sistema di calcolo contributivo in pro-rata; cioè fino al 31/12/2011 il calcolo avverrà con il sistema retributivo, mentre dal 1/1/2012 si calcolerà una quota separata di pensione con il sistema contributivo (meno favorevole). Infine la manovra cancella la pensione di anzianità, strumento che consentiva di dare una risposta ai lavoratori precoci e ai lavori faticosi, sostituito dal meccanismo della pensione anticipata. Viene meno il riferimento alle quote per accedere all’anzianità, cioè a quel meccanismo per cui si raggiungeva il requisito di pensione facendo la somma dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva. Quota 96 nel 2012 con almeno 60 anni.   La pensione anticipata potrà essere attivata per chi ha il regime retributivo e quello misto, cioè per gli assunti prima del 31/12/1995, con 42 anni e 1 mese per gli uomini e 41 anni e 1 mese per le donne, ma con penalizzazioni per l’anticipo rispetto all’età di 62 anni. Prima dei 62 anni la pensione anticipata viene ridotta dell’1% per i due anni precedenti 62 (60 e 61 anni di età) e del 2% per ogni altro anno di anticipo.   Per gli assunti dopo l’1/1/96 (soggetti al regime contributivo) saranno necessari 63 anni e almeno 20 anni di contributi e la pensione deve raggiungere almeno 2,8 volte l’assegno sociale.
In risposta a questi provvedimenti il sindacato ha reagito con lo sciopero generale dei settori privati il giorno 12 dicembre e con quello del lunedì successivo 19 dicembre dei settori pubblici. Uno sciopero sicuramente tempestivo, ma che oltre a non avere alcuna incidenza reale sulla manovra non è riuscito a mettere in moto una mobilitazione e un’iniziativa sindacale nelle categorie e nei territori che desse continuità e costringesse il governo, ma anche l’opinione pubblica, a non archiviare le problematiche delle pensioni. La sensazione che predomina invece è quella della ”cosa fatta, capo a” e sotto l’incalzare dell’azione del governo, che dopo le pensioni si appresta a falcidiare le già deboli tutele sui licenziamenti, il mondo dei lavoratori dipendenti, che rappresenta la grande maggioranza del nostro paese, appare, come si diceva in apertura di quest’articolo, residuale.
A fare  notizia non sono le condizioni di vita e di lavoro di chi a fatica riesce ad arrivare a fine mese, ma la marea montante di lobby professionali e categorie privilegiate che contrastano con accanimento i loro privilegi di nicchia, timidamente messi in discussione dalle nuove regole sull’accesso alle professioni e da una diversa disciplina che prova a definire confini più ampi per alcune corporazioni.  Il risultato è che oggi protesta, sciopera e monopolizza l’attenzione del paese chi non solo ha privilegi, ma ha anche in parte la responsabilità dello sfascio economico in cui siamo.   Oltre a ciò, questa canea montante offusca la vera portata della manovra sulle liberalizzazioni che prosegue in quel percorso avviato già dai governi precedenti che porterà alla pressoché completa privatizzazione dei servizi pubblici in spregio al referendum sull’acqua che, invece, aveva segnato una chiara volontà dei cittadini a difesa dei beni comuni. In questo solco si inserisce lo stesso provvedimento sulle Province, che ad oggi appare più una manovra demagogica per dare un contentino alla giusta richiesta di pulizia nei costi della politica, ma che nasconde in realtà il pericolo di un’ulteriore cessione di aree pubbliche alla gestione privata.


Rialzare la testa


Il “che fare” è il problema di sempre, ma oggi più di ogni altra cosa è necessario ripartire da quelli che sono i problemi dei lavoratori e dei pensionati. Dalla difesa dei salari e delle pensioni e dalla salvaguardia di quella rete di servizi sociali che se funzionanti e di qualità costituiscono una quota significativa di salario indiretto. Il punto di riferimento della nostra analisi economica deve muoversi dall’economia delle famiglie, dall’economia di milioni di anziani soli, dall’economia di milioni di giovani che non hanno futuro. Svincolarsi dalla situazione che oggi ci vede tra l’incudine e il martello della presunta oggettività delle politiche economiche, magari imposte dall’Europa, e gli equilibri politici che hanno consegnato l’Italia a chi vuol raddrizzare la barca continuando ad imbarcare acqua. Fuor di metafora, la crisi oggi è crisi del modello di accumulazione capitalista, chi oggi, Monti e il suo governo, è chiamato a “salvare l’Italia", è lo stesso che nei decenni trascorsi è stato responsabile delle politiche economiche dell’Europa; un semplice approccio di ragionevolezza suggerirebbe non solo di affidare quest’opera ad altri soggetti, ma anche a mettere in discussione i parametri economici di riferimento.  Abbandonare l’approccio tutto ideologico delle privatizzazioni, perché di questo si parla quando si tratta di liberalizzazioni, sapendo, come ha mostrato uno studio dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese di Mestre, che la stragrande maggioranza delle liberalizzazioni, effettuate in Italia negli ultimi vent’anni, ha portato, al contrario di quanto propagandato una “vera e propria impennata nei prezzi e delle tariffe”, ponendo all’ordine del giorno la necessità di rimettere al centro il ruolo del pubblico a tutela dei beni comuni e dei diritti di cittadinanza, come già aveva dimostrato la vittoria al referendum per la ripubblicizzazione dell’acqua.
In questa fase la CGIL non può limitarsi al pressing sul governo ai soli tavoli di confronto, peraltro imposti dall’esecutivo, ma è necessario, quanto prima mettere in campo tutta la forza e l’intelligenza che i numeri della nostra organizzazione ha. E’ necessario attivare da subito tutti i mezzi che ci consentono di riproporre con forza, quello che una frase ben definisce, GIUSTIZIA SOCIALE, gli strumenti non mancano, dallo sciopero alle manifestazioni, da presidi permanenti nelle piazze principali delle città, piccole e grandi, alla   informazione con comizi e volantinaggi volanti. E’ necessario parlare  chiaro sia ai lavoratori che si riconoscono nella CGIL, sia a tutti gli altri, ma è necessario parlar chiaro soprattutto alle controparti pubbliche e private, per  ribadire che  quello che è successo in particolare  negli ultimi quattro anni non può essere considerato acquisito. E’ necessario ristabilire la democrazia nelle fabbriche garantendo la libera rappresentanza di ogni componente sindacale. E’ necessario riaprire una grande vertenza sulla previdenza per definire un regime pensionistico che non consegni alla povertà, dopo una vita di lavoro, la maggioranza dei lavoratori, che tenga conto seriamente dei lavori usuranti, che soprattutto possa consentire di andare in pensione a un’età in cui è ancora possibile godere della propria vita e non solo a un’età in cui non rimane che occuparsi solo dei propri malanni. Ribadire, con forza, che esiste un problema serio d’impoverimento di tutto il mondo del lavoro, i dati Istat hanno confermato in questi giorni, se ce ne fosse stato bisogno, questa realtà e che è necessario pertanto riaprire la stagione della contrattazione a partire dai settori pubblici per rivendicare consistenti aumenti salariali.  

  
* Segretario Generale FP CGIL Livorno


 

Quale futuro per la conoscenza?

di Luca Papini *

Per la scuola pubblica italiana, per il sistema della Ricerca e dell’Università, e infine per l’Alta formazione artistica e musicale, cioè per i pilastri formativi della Repubblica, il 2012 si aprirà all’insegna dell’insicurezza, del difficile governo dei processi e della riduzione drastica dell’offerta formativa.
La legge 133 del 2008 ha segnato in profondità tutto il sistema della conoscenza del nostro paese, rendendo impossibile anche il soddisfacimento degli standard minimi di qualità.
Il 2012 sarà l’anno nel quale andrà a regime la cura di forte impoverimento voluta dal Governo Berlusconi e perseguita durante tutto il triennio dai Ministri Gelmini, Brunetta e Tremonti.
La scuola pubblica avrà:
a) 130 mila posti in meno, tra docenti e ATA;
b) i fondi dell’autonomia (legge 440\1997) che saranno scesi da 185 milioni a 87 milioni;
c) le spese per il funzionamento: azzerate.
Il taglio del personale docente ha tolto il futuro a un’intera generazione di docenti di altissimo profilo culturale, che negli anni si erano specializzati nel sistema universitario acquisendo anche due lauree, mentre andavano maturando esperienze significative su più istituti e la giusta aspirazione a una stabilità che avrebbe permesso loro di progettarsi un futuro dignitoso.
Le componenti reazionarie e localiste del governo (Lega Nord) hanno avallato prima la distruzione del modello educativo del modulo (scelta maggioritaria al sud) determinando un esubero addirittura sull’organico di ruolo, quindi hanno promosso una battaglia di divisione territoriale accentuando le contrapposizioni tra lavoratori precari autoctoni e lavoratori precari migranti, secondo il sempre in voga meccanismo del “dividi et impera”.
Il taglio del personale ATA, a cui occorre aggiungere il taglio ai finanziamenti delle cooperative che talvolta operano nelle scuole al fianco del personale statale, ha determinato un pericolosissimo decadimento delle condizioni più elementari di sicurezza e sorveglianza, oltre al determinarsi di condizioni di degrado igienico ai limiti del tollerabile.
Se queste cose sono note e sono state al centro di un’intensa battaglia politica sindacale promossa dall’FLC CGIL, al fianco di importanti movimenti degli studenti, delle famiglie e dell’associazionismo, meno note sono le conseguenze derivanti dal taglio alle spese per il funzionamento e il drastico taglio alla Legge 440.
Che cosa sono queste due partite di bilancio per la scuola pubblica? A che cosa servono? Cosa determinerà il loro ridimensionamento così marcato?
La Legge 440 finanzia l’autonomia scolastica, permettendo alle singole istituzioni di progettare la propria offerta formativa in base alla storia dei vari territori su cui operano. Il taglio a questo capitolo di bilancio, vuol dire azzerare qualsiasi autonomia progettuale e agire verso l’accentramento delle risorse, le quali poi sono state stornate sul sistema delle scuole private, che oltre a godere di maggiori finanziamenti hanno anche visto crescere in questi 3 anni il numero degli iscritti. Il governo Berlusconi lo ricorderemo come il governo più statalista degli ultimi decenni, nemico giurato del pubblico e maggiore finanziatore delle scuole confessionali.
La diminuzione dei fondi alla Legge 440 e il contemporaneo azzeramento del fondo per le spese di funzionamento avranno come conseguenza quella di rendere strutturale il sistema di tassazione “volontaria” per le famiglie, aumentando le quote d’iscrizione, allorché la Costituzione recita nel suo articolo 34, in modo diametralmente opposto, che “La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.(…)”.
Su questo scenario, che è l’eredità lasciata dal governo delle destre, il governo Monti non ha aperto alcun dibattito serio, limitandosi, da una parte a nominare come sottosegretari: un ex maestro di strada Rossi Doria, che nel passato aveva rilasciato dichiarazioni anche concordi con l’idea della Gelmini del maestro unico, ed Elena Ugolini, una dirigente delle scuole private emiliane.
Anche il nuovo Ministro Profumo si è limitato a dichiarazioni vaghe, che sul momento non sembra vadano nella direzione della discontinuità. Dietro il solito elenco di slogan: “basta con le lavagne di ardesia vogliamo tablet per tutti”; “se non possiamo aumentare i salari dei docenti almeno compriamogli un computer”; non si intravede alcuna politica strategica che rilanci il sistema educativo nazionale.
L’attacco al salario di lavorator*, agli scatti di anzianità, al sistema pensionistico, che Cisl, Uil, Snals e Gilda per tre anni hanno coperto, sperando che il risparmio del 30% sui tagli ritornasse nelle tasche dei garantiti, e dei “senatori” ha finito per impoverire tutta la categoria. E con le prossime elezioni per il rinnovo delle RSU avremo la possibilità di misurare il reale consenso nel mondo della scuola, tra chi è stato disposto ad avallare le scelte del governo Berlusconi e chi, al contrario, ha alzato la testa, ed è stato pronto ad andare avanti anche da solo. La partita che abbiamo davanti è carica di significati, ma faremo torto alle nostre idee se la svolgessimo soltanto guardando alle lotte messe in campo, misurando con il contagocce chi è stato più o meno filogovernativo. La partita dovremo giocarla sul piano delle idee.
Quali sono le nostre proposte per il cambiamento? Quali sono i nostri punti cardinali sui quali siamo disposti a combattere per modificare l’attuale deriva della scuola pubblica, dell’università e dell’alta formazione? Quali sono i fondamentali da ristabilire per dare una formazione all’altezza della complessità nella quale operiamo quotidianamente?
L’Flc Cgil ha promosso in questi anni un grande dibattito nazionale su queste tematiche, accompagnando le mobilitazioni, i flash mob, gli scioperi, con un profondo dibattito teorico e progettuale, che oggi rappresenta un’importante piattaforma programmatica.
I quattro punti cardinali di questa proposta potrei riassumerli in: accessibilità e valutazione, internazionalismo e solidarietà.
In questi anni, le politiche liberiste hanno agito con un fortissimo attacco di classe alle condizioni di accesso al sapere. Un sistema perverso di valutazione ha avuto come scopo quello di fare del “merito” uno strumento di propaganda e di selezione. Non c’è stato alcun interesse a valutare i processi educativi. L’obiettivo era quello di ridurre le possibilità di ascesa sociale delle classi sociali subalterne, o meno garantite. L’introduzione del voto numerico, l’aumento del numero degli alunni per classe, l’abolizione progressiva delle compresenze nella scuola primaria, la diminuzione delle garanzie e del diritto per i portatori di disabilità, l’uscita anticipata dal percorso professionale con il sistema dei diplomifici privati, hanno modificato in profondità l’idea di una scuola aperta, solidale e mutualistica. La competizione prima di tutto, è stato lo slogan di questi anni. I test di accesso a ordini di scuola superiori, o quelli di accesso all’Università, così come quelli relativi ai vari concorsi a numero chiuso, o quelli per i tirocini formativi, sottostanno a logiche che non premiano affatto i percorsi formativi. L’attacco quindi all’accessibilità del sapere è stato un attacco al diritto allo studio, tanto è vero che in questi anni è diminuito il numero di coloro che arrivano a concludere il ciclo degli studi, e di coloro che decidono di iscriversi all’Università.
Per uscire da questa proposta delle destre, occorre recuperare una visione generale dei processi di educazione, domandandoci quali siano le priorità, gli scopi e le esperienze migliori; che cosa scegliere, che cosa eliminare.
Internazionalismo e solidarietà sono parole che devono ritornare nel linguaggio comune della nostra proposta. Anche per dare un significato a priorità degli apprendimenti che altrimenti rischiano di non essere neanche più avvertiti come dei fondamentali cardinali.
Possibile che, in un mondo che è sempre più planetario, si debba ancora sostenere saperi obsoleti, e proporre a famiglie e bambin* l’insegnamento della religione cattolica per un totale di 66 h annue nella sola scuola primaria (330h a fine ciclo) a fronte di ben altre urgenze, come lo studio, sistematico e approfondito, di almeno altre due lingue comunitarie e di almeno una lingua extracomunitaria, dando spazio quindi a processi di apprendimento di respiro planetario?
Se conoscere lingue vuol dire conoscere culture differenti dalla nostra, il loro inserimento nelle priorità degli insegnamenti della scuola primaria dovrebbe essere una delle proposte di cambiamento da sostenere.


*segretario FLC CGIL Livorno


Crisi economica e sociale del capitalismo.
Risultato parziale:
+ 228 miliardi di euro alle Banche, 
- 3160 euro a famiglia.

di Cristiano Valente *

Questo è il risultato del decreto “salva Italia” del governo Monti nella sua articolazione concreta durante tutto il periodo 2012/2014.
Gli istituti di credito italiani potranno prelevare potenzialmente tale somma dalla Bce con finanziamenti triennali al tasso dell’1% in cambio delle proprie obbligazioni garantite dallo Stato.
Infatti, il governo Monti, come già altri governi europei avevano anticipato, ha dato la possibilità di emettere nuove obbligazioni bancarie su cui lo Stato mette una garanzia per un importo massimo pari al patrimonio di vigilanza di ogni istituto.
Dato che il patrimonio totale delle Banche italiane è pari a 228 miliardi di euro a tanto potrebbero arrivare le nuove emissioni.
Per il momento al primo finanziamento deciso dalla Bce del 21/12/2011 le cifre complessive richieste dagli istituti italiani sono state 116 miliardi di euro rispetto ai 490 miliardi complessivi prelevati dal sistema Bancario europeo.
Una manna dal cielo per gli istituti bancari se si pensa che le obbligazioni triennali di Intesa e Unicredit avevano tassi interesse superiori al 7% e che nel solo anno in corso le banche dovranno rimborsare obbligazioni per 78 miliardi di euro.
Non serve un genio per vedere, dietro a questa manna, una potenziale bomba, ma soprattutto un potenziale imbroglio.
Tutto il gran parlare sulla necessità di ridurre il credit crunch (riduzione del credito), sulla necessità di finanziare le attività produttive diventa letteratura e oratoria buona per i comizi televisivi.
Quello a cui si punta concretamente sono sempre maggiori utili e maggiori profitti attraverso la leva finanziaria.
Lo Stato mette la garanzia sui bond bancari, le banche li usano per finanziarsi in Bce e con i soldi ottenuti comprano titoli dello stesso Stato a tassi quattro o cinque volte superiori di quelli che pagano loro.
Si paga il debito con i debiti e in più si lucra.
Sull’evidenza che tutti questi soldi non si indirizzino affatto verso un allargamento del credito alle imprese o alle famiglie è testimoniato da chi oggi, piccolo o medio imprenditore o giovane famiglia chiede un prestito o un mutuo in qualsiasi banca.
Il diniego del prestito o del mutuo o interessi bancari da usura è la norma.
A fronte di tale manovra Audusbef e Federconsumatori, due organizzazioni non propriamente sette di pericolosi rivoluzionari, ma associazioni a difesa del contribuente, ci informano che la manovra Monti costerà 1129 euro a famiglia e che sommati alle misure dell’ex governo Berlusconi, il risultato finale salirà a 3160 euro in meno per nucleo familiare, con un impatto sulla capacità di consumo di una famiglia di tre persone del 7,6% annuo.
A tale risultato va aggiunto l’ultimissimo decreto detto “cresci Italia” sulle liberalizzazioni che in termini concreti, nonostante le cifre fantasiose date dal governo sulla possibilità di aumento del PIL, non determina alcun miglioramento per le condizioni economiche dei lavoratori e incide invece profondamente sul tessuto solidaristico ed economico e sulla stessa tenuta sindacale di categorie quali quelle dei trasporti.
Viene introdotto, infatti, nello specifico del settore ferroviario, lo stesso metodo in uso alla FIAT.
Ogni azienda di trasporto ferroviario, così come nelle diverse fabbriche di auto, avrà un contratto aziendale su misura, sito per sito e non ci sarà più né il salvagente della contrattazione nazionale né la certezza che a uguali mansioni corrisponderà uguali diritti economici e normativi.
Così è che con un tratto di penna si è stabilito che nel settore ferroviario potranno operare società che non applicano il contratto ferroviario tuttora vigente per il personale del Gruppo FS.
Un grosso favore a Montezemolo e a Della Valle e alla loro nuova società di trasporto NTV, ma soprattutto una conferma che la cosiddetta liberalizzazione, cioè la presunta maggiore concorrenza, che dovrebbe avere una ricaduta positiva sui consumatori e su gli utenti, avviene sulla pelle dei lavoratori del settore che dovranno confrontarsi con una babele di condizioni normative e salariali chiaramente al ribasso.
I sindacati confederali dei Trasporti, tanto meno la sola FILT CGIL, dopo aver proclamato per l’intera categoria dei ferrovieri e dell’autotrasporto ben 4 scioperi generali, non hanno indetto alcuna mobilitazione contro il decreto e lo smembramento della contrattazione nazionale.
Ci pare, inoltre, che i diversi gruppi dirigenti a livello locale non siano in grado di colmare questo buco e quest’assenza di prospettive e d’indicazioni.
Regna una sorta di paralisi e di attendismo più che mai risibile se non fosse drammatico in una situazione di reale arretramento su tutti i fronti.
Se è vero com’è vero che la differenza dei redditi medi è notevolmente aumentata dagli anni ’80 a oggi, passando da un ventaglio di 8 a 1 a 10 a 1 e che all’interno di questa diseguaglianza dei redditi che riguarda l’insieme della popolazione, una particolare ingiustizia ha colpito i redditi da lavoro che sono tornati indietro al valore reale di 20 anni fa e che inoltre la diseguaglianza nei patrimoni è di gran lunga maggiore di quella rilevata nei redditi ed è anche aumentata sensibilmente nel 2010 rispetto al 2008, non si capisce assolutamente questa incapacità d’indicazione di mobilitazione e di rassegnazione.
Non è possibile lasciare tutto nei rivoli delle mille lotte settoriali e nella logica degli incontri chiesti al Ministro o al Governatore di turno sul singolo settore produttivo e merceologico.
L’attacco è complessivo e complessivamente occorre rispondere. Così perdiamo tutti e soprattutto perdiamo tutto.
Se la diseguaglianza è aumentata complessivamente vuol dire che occorre fare una battaglia generale per la redistribuzione e in prospettiva per l’uguaglianza.
L’attacco da parte della FIAT e del suo Amministratore Delegato, oggi evidente a tutti, non riguarda solo le industrie dell’auto, così come Pomigliano non riguardava solo, come qualcuno ci aveva raccontato anche nella nostra organizzazione, Pomigliano, ma tutto il gruppo, allora perché lasciare da sola alla FIOM il peso di questa battaglia e non decidere di mettere tutta la forza dell’organizzazione su questa partita.
La priorità non sta nel “mettere i conti a posto” come il segretario del PD Bersani e con lui molta parte del gruppo dirigente CGIL continuano a ripetere o a pensare, spesso senza il coraggio di dirlo nelle riunioni pubbliche.
Mettere i cosiddetti conti a posto in questa situazione di “crisi sistemica”, come gli stessi adulatori del mercato sono costretti ad ammettere, vuol dire favorire quelle operazioni di vera ingegneria finanziaria criminale con cui abbiamo aperto l’articolo.
Vuol dire dare priorità a quelle scelte in cui i profitti (finanziari o produttivi che siano) si mantengano inalterati e sperare in una futura ripresa economica che ripartirebbe sempre e comunque con i soliti vizi sistemici e con peggiorate condizioni per la massa dei lavoratori.
Il fatto che queste condizioni possono voler dire anni e anni di disoccupazione e miseria, di ritorno a condizioni di salute e di prospettiva di vita non più da primo mondo, ma da terzo o quarto, che occorrano più generazioni per riaffermare un principio minimo di base solidaristico, che a uguale lavoro ci deve essere uguale retribuzione e che il lavoro non debba essere una maledizione o un’elargizione, ma un diritto oltre che una fondamentale dimensione di realizzazione personale, tutto questo è un effetto collaterale per il capitalismo e per chi crede che i conti vadano messi a posto.
Vuol dire tornare indietro di oltre 300 anni di storia dell’umanità; a prima dell’esortazione degli illuministi all’uguaglianza fra gli uomini oltre che alla loro fratellanza.
Cancellare la consapevolezza dei pensatori e dei filosofi del secolo decimo nono e ventesimo che la sola vera libertà sta nella risoluzione della questione sociale, cioè nella risoluzione della lotta fra le classi e che solo ciò potesse concretizzare l’esortazione alla libertà degli illuministi del XVII secolo.
E’ chiaro a tutti, anche ai fanciulli, che si potrebbero usare e trovare i soldi in maniera diversa e con risultati diversi.
Basterebbe tassare realmente i patrimoni reali, smettere di finanziare guerre ed armamenti, dirottare i miliardi di euro spesi nella pubblicità in opere utili come la messa a norma degli edifici scolastici, recuperare i miliardi di evasione fiscale e quelli delle mafie, investire in opere idrauliche e di bonifica delle coste e dei fiumi in modo da stimolare oltre a concreto lavoro entrate per un maggior turismo e minori spese per i continui disastri ambientali ecc.
Ma perché tutte queste e molte altre cose ancora, seppur evidenti e di buon senno, non vengono fatte?
Nessuna di queste cose ci porterebbe o sarebbe la realizzazione del socialismo, tanto meno del comunismo libertario.
Sarebbero misure di società comunque classiste, comunque liberali e capitaliste, ma che avrebbero un potenziale sviluppo in senso egualitario e di maggiori prospettive sociali.
Più deboli siamo, più le nostre condizioni peggiorano, più la difficoltà di semplici miglioramenti parziali è preclusa.
Una forza lavoro disoccupata, in miseria, ricattata accetta qualsiasi lavoro e qualsiasi condizione normativa.
Sono i rapporti di forza complessivi fra la classe lavoratrice, la nostra, quella dei lavoratori dipendenti e la classe antagonista, la borghesia, che ci imprigiona in questa galera e nei momenti di crisi come oggi in questa vera “Caienna”.
Nei presunti democratici e in buona parte del gruppo dirigente sindacale si è smarrita persino questa semplice acquisizione riformistica.
I miglioramenti non si ottengono isolati, caso per caso. O tutti avanziamo o tutti arretriamo. Non esistono zone franche nella lotta di classe.
Occorre attestarci su alcune posizioni e dare una lunga e tenace battaglia.
Non è possibile che una riforma delle pensioni che ha esteso a tutti il metodo contributivo, oltre a eliminare dall’oggi al domani prospettive di vita a milioni di lavoratori si risponda con uno sciopero di tre ore.
Alla condizione dei lavoratori FIAT, quindi i metalmeccanici, cosi come per i ferrovieri, forse non a caso due delle categorie storiche più sindacalizzate nella lunga storia della lotta di classe nel nostro paese, non è possibile rispondere settorialmente.
All’insipienza di un gruppo dirigente democratico e riformista per fortuna ancora fa da contro altare un’acquisizione minima, anch’essa di buon senno; se sacrifici occorrono fare occorre ridistribuirli.
Ma in questa stessa logica perché non si può ridistribuire anche il poco lavoro che c’è?
Perché non mettere in campo prima una seria riflessione e poi una battaglia adeguata per la riduzione di orario a parità di paga visto che una delle priorità è la scarsità di occupazione e questa non viene certo favorita dalla riforma delle pensioni che lascia invece al lavoro milioni di possibili pensionati?
Per questo i comunisti anarchici e libertari che sono presenti nella lotta di classe devono avere un compito maggiore di coordinamento e di avanguardia nelle lotte e nelle rivendicazioni.
Occorre tentare di costruire la massa critica necessaria per non essere travolti dall’onda d’urto della crisi economica e politica del capitalismo.

*membro direttivo regionale Filt Toscana


 

MEMORIA

 

Umberto Marzocchi

Nato a Firenze il 10/10/1900, a 17 anni entra a lavorare alla Vickers Terni di La Spezia, oggi Oto Melara, e si iscrive all’USI, Unione Sindacale Italiana, frequenta i corsi serali delle scuole di Arti e Mestieri.
Diventa segretario del Sindacato Operai Metallurgici aderente all'USI. Nel 1919 partecipa al Comitato di agitazione contro il carovita; organizza la ricostruzione del Movimento Anarchico, collabora con Pasquale Binazzi alla ripresa delle pubblicazioni di “Il Libertario”. 
Subisce diversi arresti e processi durante le dimostrazioni e le proteste di quell'anno.  Nel 1920 partecipa alla sollevazione di La Spezia, il 3 Giugno, con l'assalto alla polveriera di Val di Locchi, e all’ammutinamento della corazzata Duilio, il 2 settembre tutte le fabbriche sono occupate.
 Nel 1921 all'inizio della reazione fascista è costretto a fuggire a Savona ed è organizzatore del Comitato Antifascista "alleanza del Lavoro", che aderisce allo sciopero antifascista del 3 Agosto; è quindi costretto ad emigrare in Francia dopo l’organizzazione degli "Arditi del Popolo" e la partecipazione ai fatti di Sarzana del 21 luglio.
 Nel 1936 fa parte della Colonna Italiana F. Asceso delle milizie della CNT-FAI in Spagna, sul fronte di Aragona. Rientra in Francia nel 1939, -nel 1944 partecipa alla resistenza nella formazione (maquis) Bidon-V-Unità Spagnola della FFI, fino alla liberazione. A fine 1944 assieme a G. Leval e Mirande intraprende un giro di conferenze per la "Solidarietà Internazionale Antifascista". 
Nel 1945 rientra in Italia, a seguito delle indicazioni del congresso di Carrara del 15-19 Settembre entra a far parte dei Comitati di Difesa Sindacale e diventa segretario del Sindacato Dipendenti Enti Locali, della CGIL, nella provincia di Savona, fa parte del C.D. naz. della CGIL fino al 1962.
Assume il compito di relazioni internazionali all'interno della FAI, nel 1958 è delegato al Congresso Internazionale Anarchico di Londra, nel 1968 è sempre delegato per la FAI alla costituzione‘ dell'Internazionale delle Federazioni Anarchiche, che si tiene a Carrara dal 31 Agosto al 5 Settembre.
Nel 1971 diventa segretario della commissione di Relazioni dell’Internazionale, nel congresso di Parigi. Nel 1977 è tra i promotori della Lega per il Disarmo Unilaterale, ed è arrestato in Spagna durante una riunione internazionale delle federazioni anarchiche, e quindi espulso dal Paese.
Muore a Savona il 4 giugno 1986.

Fonti: "Umanità Nova" Giugno 1986.